Sulle tracce dei signori delle rocce

un incontro tra nebbie e cime

Tra nuvole mutevoli e vento impetuoso, il Monte Meta svela la magia del camoscio appenninico durante la stagione degli amori

Le nuvole si aprivano e richiudevano come un sipario, offrendoci attimi perfetti per fotografare i camosci nella loro bellezza selvaggia

L’alba ci aveva colto all’ombra di una faggeta millenaria, tra tronchi possenti che sembravano sorreggere il cielo plumbeo del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Il sentiero, morbido sotto i piedi per il tappeto di foglie umide, si snodava con dolcezza tra gli alberi, lasciando solo intuire cosa ci attendesse oltre. Uscimmo infine all’aperto, sull’altopiano di Biscurri, e il paesaggio si spalancò davanti a noi in tutta la sua maestosità. Le nuvole basse avvolgevano le cime vicine come un manto evanescente, mentre un vento tagliente cominciava a farsi sentire.

Il nostro obiettivo era ambizioso: raggiungere la vetta del Monte Meta e immortalare il camoscio appenninico, il signore delle rocce, in uno dei momenti più straordinari della sua vita, la stagione degli amori. Ogni dettaglio del viaggio era calcolato, ogni passo misurato, ma la montagna aveva un suo modo di decidere il destino di chi osava percorrerla.

Nonostante il vento e il freddo, ogni scatto catturava la magia di un incontro raro, tra le nebbie del Monte Meta.

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Poco oltre il bosco, raggiungemmo un vecchio fortino, un rudere di pietra scolpito dal tempo e dalla storia. Lo immaginammo un tempo presidio contro briganti, ora spettatore immobile della natura circostante. Da lì, la vista del Monte Meta era uno spettacolo mutevole: le sue cime appuntite sembravano emergere e inabissarsi a intermittenza, un sipario che le nuvole aprivano e chiudevano capricciosamente. Intravedemmo anche il Gendarme, con le sue pareti scoscese, e decidemmo di proseguire almeno fino al Passo dei Monaci, nonostante il vento che cominciava a fischiare tra le rocce e la temperatura che si abbassava.

Al passo il freddo si fece più intenso, costringendoci a trovare riparo dietro una sporgenza rocciosa. Da lì, osservammo l’ambiente surreale: i lembi di nebbia si muovevano come entità viventi, scoprendo e nascondendo il panorama con una danza ipnotica. Fu in uno di quei rari momenti di chiarezza che li vedemmo: cinque camosci, eleganti e fieri, intenti a risalire una valletta stretta poco più avanti.

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La vista fugace accese in noi un entusiasmo misto a meraviglia, e decidemmo di proseguire, incuranti del vento che sembrava aumentare di intensità a ogni metro. Seguimmo il sentiero verso la vetta, ma le nuvole presto inghiottirono i camosci, lasciandoci soli con il fragore del vento. Arrivati intorno a quota 2060 metri, trovammo riparo sul fianco di un piccolo canalone. Il silenzio tornò a regnare per un istante.

E poi, come fantasmi emersi dalle nebbie, i cinque camosci riapparvero. Rimanemmo immobili, temendo di spezzare l’incanto di quel momento. La loro eleganza ci lasciò senza fiato: un maschio possente guidava il gruppo, emettendo richiami gutturali e assumendo pose teatrali per attirare l’attenzione delle femmine. Il vento e il freddo sembravano svaniti, sopraffatti dalla meraviglia. Per quasi un’ora rimanemmo lì, in un tempo sospeso, mentre le nuvole giocavano a nascondino con la luce e il paesaggio.

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Quel giorno, tra le nebbie e i silenzi del Monte Meta, avevamo assistito a uno spettacolo che solo la natura può offrire. I camosci, il paesaggio avvolto dalle nuvole, e quella sensazione di “vedo non vedo” avevano reso tutto magico, un’avventura che avrebbe abitato i nostri ricordi per sempre.

 

Testo e Foto © Marco Buonocore

Nonostante il vento, le nuvole e il freddo, siamo riusciti a fotografare la magia di un incontro selvaggio

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